venerdì 6 giugno 2008

Antifascismo; questioni per un dibattito politico

Premesso che questa non è didattica, né una “scuola di partito”, il presente documento vuole trattare alcuni nodi dell’antifascismo, ponendo in essere le contraddizioni, sempre più pesanti, che si rendono palesi, giorno dopo giorno, nel nostro paese, come nel resto del mondo. Se l’antifascismo è un terreno sul quale le sinistre, tutte, hanno dovuto confrontarsi, alcune volte in modo virulento, perdendo pezzi di consenso e militanti, è perché si tratta di una comune radice storica, un unico terreno politico-militare di provenienza; quello della Resistenza. La relazione della politica, e della sua filosofia, con la storia, cioè con il mondo d’origine, è sempre critica perché, nell’equilibrio della dialettica, una parola cancella le altre, o per lo meno le sostituisce, le rimpiazza. Così, se nel dopoguerra Resistenza voleva dire Libertà, e quella dei comunisti era stata una lotta “per un mondo nuovo, di eguali”, contro il nazifascismo certo, ma anche per una rivoluzione di classe, ben presto con le politiche d’inserimento graduale, per un partito di massa, di gestione dei consensi e delle posizioni, da parte del Pci si passò a dividere le parole dall’azione politica, tanto da sentirsi costretti controvoglia a partecipare alla mobilitazione popolare di Genova 1960, che esigeva una presenza formale del partito.
L’antifascismo divenne quindi merce di scambio politico, come anche i suoi testimoni, i partigiani, assunsero il ruolo di rappresentanti dell’istituzione, all’interno della quale potevano agevolmente muovere equilibri. Con la “stagione dei movimenti”, e in realtà già prima con il lavoro teorico di alcuni intellettuali, si pose la questione dell’eredità della Resistenza, visto che già dal 1946 la Repubblica aveva legalizzato la presenza dei fascisti nell’ordine partitico, consentendo la nascita del Movimento Sociale Italiano. La prima ad essere messa sotto accusa fu proprio la Costituzione e la sua applicazione; com’era possibile che vietando il fascismo permettesse già dal 1948 che tra i banchi di Montecitorio sedessero irriducibili di Salò e del ventennio? Dalle violenze si passò alle stragi, alla commistione delle destre con i settori militari, massonici, mafiosi.
La risposta “di legalità” non fu però accettata da tutti. All’antifascismo istituzionale si accostò quello militante, vissuto giorno per giorno, passo a passo. Analizziamone dunque le caratteristiche. Rispetto a quello istituzionale ha una diversa base d’azione; si sviluppa nella città, nei quartieri, nei rioni, ha insomma una territorialità che manca all’ambiente metafisico parlamentare, fatto di giornali, radio, tv. Si radica all’habitat in cui vive e combatte ogni forma di intrusione, di provocazione fascista, «colpo su colpo», coinvolgendo la popolazione, il sociale, nel processo di lotta. Non esita ad usare qualsiasi mezzo per la difesa.
Dietro all’azione diretta c’è però un ampio processo di analisi del momento storico, e di ricerca degli strumenti idonei per la vittoria sul neofascismo. Intanto va detto che l’antifascismo non si espleta solo nella contrapposizione contro i «topi di fogna», ma anche nell’affermazione di altri valori, come l’antisessismo, l’antirazzismo, l’anticapitalismo, l’antimperialismo, la lotta di classe sul posto di lavoro, con un background di argomenti che abbraccia la totalità del vissuto.
Proprio per questo motivo i gruppi neofascisti non devono essere al centro dell’attenzione degli antifascisti, ma anzi è fondamentale analizzare le contraddizioni sociali, spesso irrisolte e dimenticate dall’apparato politico istituzionale, per individuare i terreni sui quali, sfruttando le situazioni del caso, questi gruppi pongono le proprie radici. Solo agendo alla base si possono disarticolare questi gruppi, rendendoli insignificanti, cacciandoli, eliminandoli. Il protagonismo deve essere quello delle masse e non l’esaltazione della paura per i fasci, degli attacchi compiuti.
Vi è poi la questione della guerra. La dottrina politica dei fascisti si basa su di una gerarchia, dominata da un Capo, che parla ai suoi «soldati politici», i militanti che sono in guerra contro tutti e tutto, per ristabilire l’Ordine originario. L’antifascismo militante, invece, combatte la sua “guerra giusta”, pur battendosi per la pace non lesina l’uso della violenza. Questa, però, deve essere sempre giustificabile e rivendicabile politicamente, non deve in sostanza essere fine a se stessa, o generalizzata. Ci sono momenti in cui è politicamente utile intervenire, altri nei quali l’azione porterebbe ad un’inevitabile sconfitta. La responsabilità è quella di ricercare sempre una vittoria e non l’eliminazione del nemico ad ogni costo, perché solo nella vittoria si trova la sconfitta del nemico. La “romantica” immolazione per la causa viene sostituita con un’azione razionale, con immediate ricadute politiche.
C’è poi l’élitarismo della lotta, concezione nella quale cadono moltissimi soggetti politici, anche extraistituzionali. Non esiste un prototipo di antifascista militante, né vi è un modello d’azione corretto. Né le lotte possono essere combattute tra eserciti contrapposti, su di un terreno cittadino. Sarebbe inevitabile una sconfitta visto il ruolo che i fascisti svolgono, che come diceva Gramsci è quello di spalla delle dirigenze capitalistiche. Quindi bisogna confrontarsi, coinvolgendo sulle posizioni e sulle finalità, anche con i meno politicizzati, che comunque vivono sulla propria pelle, dal mattino alla sera, le contraddizioni del vivere.
Spesso all’azione militante segue quella legale, di processi montati ad arte per screditare e a volte sconfiggere scomode componenti politiche, fuori e oltre l’arco parlamentare, ma con implicazioni dirette per tutti. Bene, visto che questi procedimenti vertono su due fattori, quello della violenza e quello dell’illegalità, una mobilitazione contro la repressione è inutile, e nella peggiore delle ipotesi stupida. Perché non ci si può aspettare, dal sistema-istituzione, che funzioni in altra maniera se non quella di reprimere le istanze rivoluzionare, contrarie per forma ed orientamento a quelle della conservazione del potere. Questo non vuol dire accettarlo o dimenticare i denunciati, ma affrontare in modo politico, e non personale e soggettivo, l’impianto accusatorio, le denunce stesse che cercano di aprire varchi nella giurisprudenza per colpire, il più delle volte, l’azione e quindi lo strumento del soggetto politico. Va rivendicata una continuità politica di gruppo, collettiva, che faccia emergere le contraddizioni in seno al sistema di potere stesso. Inoltre nella fase di costruzione del percorso politico “l’isolamento dorato” dei duri e puri spesso si traduce in tragedie politiche, con situazioni d’obbligo, nelle quali si perde l’iniziativa e si deve per forza agire, consapevoli di un successivo disastro.
Va preso atto della capacità, da parte delle varie organizzazioni fasciste, di essere, in alcuni luoghi, gli unici referenti politici. Dalla lotta per la casa al caro vita, allo stadio, pur non condividendone le analisi, il neofascismo ha imparato ad occuparsi “del sociale” in modo strumentale, per aumentare voti e numeri. Certo, che si sia d’accordo o no sulla fascistizzazione della società, non si può però negare che vi sia una sincronia perfetta tra questo mondo che premia l’individualismo, l’arrivismo, l’egoismo, il sessismo, il razzismo, ecc… e le parole d’ordine del neofascismo. Ma questo conferma, ancora una volta, che esiste una continuità tra le due entità.
Su questi temi, sull’urgenza dell’antifascismo, in ogni ambito d’azione è doveroso aprire un dibattito che tenga conto delle specificità di ogni città, ma che ponga prima di tutto l’unione degli antifascisti come requisito primario per ogni tipo d’intervento. Invitiamo dunque tutti a scrivere sull’argomento; mandateci le vostre riflessioni all’indirizzo infoantifa@gmail.com

Redazione InfoAntifa